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Parliamo di plastica: il polietilene

Posted on Marzo 3, 2018Maggio 23, 2019 by Franca Biassonni

Non molti di noi lo sanno, ma può essere curioso rivelare che molto spesso, quando diciamo “plastica”… ci stiamo riferendo al polietilene, o politene, che si abbrevia di solito con la sigla PE. Con una produzione annuale di ben ottanta milioni di tonnellate, infatti, il polietilene è sicuramente il tipo di materiale plastico più diffuso al mondo. Viene utilizzato in primo luogo per creare una grande varietà di svariati tipi di confezioni, dalle borse di plastica, alle pellicole, a svariati tipi di contenitori come le bottiglie. Benché esistano molte diverse varietà di polietilene, quasi tutte condividono la formula chimica di base, essendo costituite da lunghissime catene polimeriche di C2H4, e l’origine: il tanto diffuso e importante polietilene fu infatti inventato per sbaglio.

Accadde in Germania, nel laboratorio chimico dove lavoravano tre chimici: Hans Von Pechmann, Eugen Bamberger e Friedrich Tschimer, nel 1898. Von Pechmann stava riscaldando del diazometano, quando casualmente produsse una sostanza bianca e di consistenza cerosa: le analisi dei suoi colleghi ne rivelarono la conformazione polimerica di base, e I tre diedero al composto il nome di “polimetilene”.

Fu però soltanto trentacinque anni dopo che, in ambito industriale, fu commesso il secondo errore che fece riscoprire questo materiale e insieme diede origine al processo industriale per produrlo in maniera regolare. Questa volta avvenne in Inghilterra, alla ICI, dove altri due chimici, Eric Fawcett e Reginald Gibson, stavano sperimentando gli effetti di una pressione elevatissima su una mescolanza di benzaldeide e etilene., quando un’accidentale infiltrazione di ossigeno (che non fu subito identificata, e rese quindi difficoltoso dapprima reiterare il fenomeno) generò ancora la sostanza scoperta da Pechmann decenni prima.

Fu solo due anni dopo che un nuovo chimico dell’ICI, Michael Perrin, scoprì come riprodurre il procedimento in modo costante, e quattro anni dopo iniziò la lavorazione industriale. Il polietilene attraversò poi diverse vicissitudini: se ne scoprì l’alta proprietà schermante, e durante la guerra fu reso segreto militare e utilizzato per isolare i cavi dei radar inglesi; e finalmente nel ’44 ne riprese la produzione anche negli Stati Uniti, sotto licenza dell’inglese ICI. Ma è degli anni ’50 la scoperta che cambiò del tutto la scena, ossia quella di una procedura che richiedesse temperature e pressioni meno elevate; per tale risultato occorse un catalizzatore, e dopo svariati tentativi vennero sviluppati due metodi, lo Ziegler, tedesco, che richiede condizioni molto miti, e il Phillips, che è meno costoso e più facile.

Malauguratamente, pur essendo versatile e diffuso, il polietilene non è esente da problemi. Il più grave è forse costituito dal fatto che non è biodegradabile, e quindi si accumula indefinitamente, generando gravi problemi di inquinamento. Un Paese che vive intimamente questo tipo di problema è il Giappone, in cui la soluzione dell’inquinamento da plastica è stata catalogata come un potenziale mercato da 90 miliardi di dollari. Una speranza, di recente, è venuta in tal senso dalla scoperta affascinante di un sedicenne Canadese, Daniel Burd, che ha scoperto come due batteri siano in grado di smaltire più del 40% della massa delle borse di plastica in un tempo inferiore a tre mesi.

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