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Cent’anni di stampe: la flessografia

Posted on Luglio 28, 2013Maggio 23, 2019 by Franca Biassonni

La flessografia, o stampa flessografica, è un procedimento di stampa di larga applicazione, che fa uso, caratteristicamente, di una placca flessibile su cui sono in rilievo i caratteri da riportare. Fra i vantaggi più importanti che le sono propri, e che la rendono ampiamente utilizzata ancora oggi, c’è sicuramente la sua straordinaria adattabilità, che permette di impiegarla per stampare su supporti veramente di qualsiasi tipo possibile, spaziando dalla carta, alla plastica, al cellophane, fino a sottili pellicole metalliche. Essendo in grado di stampare su sostegni non-porosi, è in particolare indicata poi per lavorazioni sugli incarti e sugli involucri che andranno ad avvolgere del cibo, e che sono normalmente, appunto, sostanze non porose. Ma qual è la storia, e quali sono le caratteristiche, di questo originale e versatile sistema di stampa?

Le origini della stampa flessografica vanno ricercate in Inghilterra alla fine del diciannovesimo secolo, e per essere precisi nell’anno 1890, quando una ditta di nome Bibby, Baron and Sons produsse la prima macchina da stampa di questo tipo. Usava ancora inchiostri a base d’acqua, che tendevano a sbavare molto – il che le valse il nomignolo di “Bibby’s Folly”, ossia “La Follia di Bibby” . Le cose non rimasero ferme a lungo, tuttavia: negli anni Venti del 1900, il grosso della produzione delle macchine flessografiche si è oramai completamente spostato in Germania, dove il procedimento ha nome “Gummidruck”, ossia “stampa a gomma”. Gli inchiostri ad acqua sono stati abbandonati in favore di quelli, più stabili, a base di anilina, migliorando la qualità di stampa. Ma c’è un problema: l’anilina è tossica, e la Gummidruck si usa particolarmente per stampare confezioni di alimenti. Negli anni ’40, la DDA Statunitense dichiara il metodo incompatibile con l’ambito alimentare, e le vendite colano a picco.

Nel ’49, fortunatamente per i produttori e gli stampatori, vengono testati e approvati dei nuovi inchiostri, finalmente sicuri e atossici, adatti alla stampa in campo alimentare; ma malauguratamente la cattiva impressione permane, e le vendite non si risollevano, e il problema rischia di far fallire il settore. Le associazioni di categoria si resero conto che occorreva un’immagine nuova, un nome nuovo che non rievocasse cattivi ricordi; e Franklin Moss, presidente della Mosstype Corporation, condusse a riguardo un sondaggio sul suo giornale, il MossTyper. Fra centinaia di nomi possibili, I tre finalisti risultarono essere “permatone”, “rotopake” e quello che finalmente come sappiamo vinse largamente, “flexograph”, il nome che usiamo anche oggi per descrivere il procedimento.

E se ancor oggi parliamo di stampa flessografica e la usiamo tanto largamente è perchè, benché lungamente (per la precisione, almeno fino agli anni ’90) non abbia offerto livelli di esattezza confrontabili con quelli offerti dalla stampa offset, dà in compenso la possibilità di lavorare su moltissimi supporti diversi, tutti tipici del packaging, come plastica, pellicole metalliche, cartoni e acetato, e di usare inchiostri anche a base d’acqua. In generale, oltre a questo, tutti gli inchiostri flessografici sono poco viscosi, e quindi tendono ad essiccare in fretta, accorciando I tempi di lavorazione e conseguentemente I costi. Per tutti questi motivi, ancora oggi, la flessografia ha ancora un ruolo importante e una posizione precisa nel mondo della stampa, e non accenna a volerli abbandonare.

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